Il "Lamento" di Eugenio Montale

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E nella mia memoria ne rimangono sempre meno di queste parole. Il suono delle parole umane si avvicina solo approssimativamente alla loro costruzione. E se anche si radunassero dei linguisti e chiedessero il loro significato, io potrei dire solo GOGRY TUŽEROSKIP e gesticolare inutilmente. Non pensate che io sia venuto qui con un qualche scopo segreto. Migrazione di popoli, guerra fra mondi, o questo e quell’altro. Non sono né un militare, né uno studioso, né un viaggiatore, la mia professione è il contabile, stando qui, si capisce, meglio non ricordare il passato, tanto non lo capiremmo comunque.

In realtà gli occhi che si trovavano sulle braccia, sulle gambe e sulla nuca iniziavano a indebolirsi notevolmente, nascosti durante il giorno sotto abiti ruvidi e sotto la mia capigliatura posticcia. Un occhio era già cieco da quando avevo 34 anni, infiammato dallo scarpone sinistro. Era difficile fare un controllo così accurato. Che spettacolo meraviglioso, ora sfortunatamente concessomi solo in poche ore notturne. Basta alzare le mani e mi vedo dal soffitto, per così dire, elevandomi e penzolando sopra me stesso. E nello stesso momento, con gli altri occhi, non perdo la visuale dal basso, dal lato e dal davanti del mio corpo ramoso e frondoso.

Eccolo, il barattolo con lo spirito, irritante come il profumo della Kostrickaja! Immergono il mio corpo mostruoso, di gran lunga il più importante sulla Terra, nella vasca avvelenata, nella tomba di vetro, nella storia, a edificazione dei posteri, per l’eternità. Così passò una settimana e mezza e nessuno entrò in camera mia. Io mi immaginai come dopo la mia morte i vicini sarebbero stati contenti di portarmi al policlinico.

Dopodomani, quando si metteranno a dormire, io me ne andrò in silenzio, in taxi, direttamente alla stazione. Chi s’è visto s’è visto. Boschi, boschi verdi come il corpo di mia madre, mi accoglieranno e mi copriranno.

Se vi resta ancora un briciolo di pietà, andatevene, ve ne prego, vi supplico, andatevene, lasciatemi solo”. “Bevete, dunque, bevete! “avete chiesto voi dell’acqua”.

Presumibilmente il mio corpo le aveva provocato, come a tutte le altre persone, soltanto ribrezzo. Così ragionavo, versandomi l’acqua dal boccale, in quella notte in cui la Kostrickaja meditava di uccidermi mettendo fuori uso il bagno. Ma la mattina seguente mi ammalai, forse perché avevo preso freddo nel catino, e iniziò il periodo più difficile della mia vita.

A molti di noi Dossena ha indicato ciò che avremmo voluto fare da grandi. Di grande, per oggi, c’è il saluto che gli mandiamo da qui. Cadendo sulla Terra, abbiamo fatto un buco enorme. Lo circonderò di legna. Mi siederò nella buca, mi slegherò, toglierò la cintura e aspetterò. E nessun pensiero umano, nessuna parola nel dialetto straniero.

A volte mi sembra di ricordare che al mio paese mi siano rimasti dei figli. Dei cactus rigogliosissimi. Non devo dimenticarmi di darli a Veronica. Ora devono essere già grandi.

Siete voi che non avete accettato il mio amore, la mia pietà...Siete solo un uomo malvagio e spietato, una persona molto cattiva, Andrej Kazimirovič”. Rifiutai il bicchiere, lo lanciai e, sentendomi morire, mi sedetti. L’acqua cadde dalla mia bocca sul divano. Alcune gocce caddero sul palmo secco della mia mano inferiore. Non bastava che mi avesse già toccato la fronte, fresca come l’aria della stanza, e avesse tastato con le sue dita roventi il mio polso che non batteva! Ma, aggiustandomi il cuscino, Veronica scostò con disgusto la mano con la quale aveva toccato la mia parrucca.

Certo non come un essere umano o come un animale, ma piuttosto in maniera simile a qualcosa che c’è anche da voi, il regno vegetale; anch’io ho le mie necessità vitali. Prima di tutto ho bisogno di acqua, e, in mancanza di una migliore umidità, ci dev’essere almeno una determinata temperatura e, di tanto in tanto, nell’acqua, i sali mancanti. Sento nell’atmosfera circostante un crescente abbassamento di temperatura.

Così, quando tutti furono andati a dormire e sia dal piano di sopra che da quello di sotto, e persino da quello di fianco, arrivava il suono di un moderato russare, staccai dal chiodo il catino di Veronica, che era appeso nel nostro gabinetto accanto a quelli degli altri. Lo trascinai lungo il corridoio, facendo un gran rumore, come un boato, e al piano inferiore, da sotto il pavimento, qualcuno cominciò a battere. Ma portai comunque a termine il mio lavoro, feci bollire la teiera sul fuoco, presi un secchio di acqua fredda e portai tutto nella mia stanza, poi mi chiusi col catenaccio. E ficcai la chiave nel buco della serratura. Non faccio nient’altro che girarci attorno cavandomela con della metafore, ma non appena mi avvicino al punto, mi mancano le parole. Io vedo solo il solido, basso GOGRY, sento il veloce VZGLYAGU, e l’incredibilmente bello PCHENC che offuscano il mio tronco.

Che meraviglia sbottonarsi i vestiti, togliersi la parrucca, staccare le conchiglie auricolari dalle vere guttaperche e slacciare le cinghie che mi stringono il petto e la schiena. Il mio corpo si scoprì essere esattamente come una palma impacchettata appena uscita da un magazzino. Tutte le parti intorpidite durante il giorno rinacquero e cominciarono a risplendere. Avevo una fame incredibile, ma la Kostrickaja aveva rotto il bagno per rovinarmi e, come se non bastasse, in attesa della riparazione avevano dimenticato del sughero nel buchino da cui scorreva l’acqua, che in questo modo non passava.

Si tratta certo di uno sfogo di dolore del poeta, ma quel titolo esplicito va forse letto in chiave anche ironica, un ammiccamento a una posa sentimentale, la soverchia teatralizzazione di una postura. Lo scioglimento dell’acronimo è giustificato in parte dai successivi riferimenti interni al testo, in parte da alcune annotazioni d’autore a bordo pagina, aggiunte a matita. Ogni tentativo invece di sapere a quale figura storica delle amicizie montaliane si faccia riferimento non può che essere, almeno per ora, abbozzato per via congetturale e speriamo che altri dopo di noi prendano il testimone per far luce sulla vicenda.

Ma voi stessi sapete che gelo c’è in Siberia. Niente da fare, dovetti abbandonare i boschi. Da qualche giorno avevo familiarizzato con la gente dei cespugli. Capii subito che erano creature ragionevoli, ma in un primo momento avevo paura che mi divorassero. Mi ricoprii con qualche straccio e uscii dai cespugli con aria affabile.

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